di Daniela Pastore e Tonino Scala
Ce steve ‘na vota un padre di sette figlie. Sei belle e una brutta. Almeno così dicevano tutti. Era la figlia della prima moglie. L’uomo era rimasto solo. Poverina, sua moglie era andata a fare una lunga passeggiata in cielo. L’uomo viaggiava, faceva il mercante, comprava e vendeva stoffe, mica si poteva portare la figlia con lui? In quel tempo poi i viaggi duravano tanto, ma tanto tempo e allora… si risposò con una donna che teneva sei figlie.Fece una bella festa invitò un sacco di gente poi… dovette partire: il lavoro è lavoro!
«Voglio ‘a cammisella!»
«Voglio un vestito!»
«Voglio un giacchettino!»
Dicevano le figlie acquisite. Ma il mercante teneva anche l’altra figlia che però non avanzava richieste. Tutti la chiamavano ‘A Gatta Cennerentola perché se ne stava come un gattino davanti al focolare.
Il padre vedendola in disparte si avvicinò e le disse:« Cenerentola brutta di papà, tu non mi chiedi niente?»
«E che vi devo dire papà, tanto se vi cerco qualche cosa, voi lo stesso non lo portate…»
«Ma no… non dire così. Dimmi cosa vuoi che te lo porto» rispose il padre.
«E allora… portatemi una pianta di dattero. Però ve lo dico, se vi dimenticate, quando sarete sul Ponte della Maddalena, non potrete andare né avanti né indietro.»
«Ma tu guarda questa Cenerentola brutta. Ma come, io mi sposo, ti voglio fare un regalo e tu mi mandi una jastemma?»
Una maledizione per ricambiare?
Lui, il padre, il novello sposo, veramente si dimenticò della vera figlia mentre a quelle acquisite portò quanto promesso.
Quando si trovò sul Ponte della Maddalena non riuscì ad andare né avanti, né indietro. Spronava in tutti i modi i cavalli, ma niente da fare: questi non si muovevano.
«Che sarà?» Pensò. Poi si ricordò delle parole di Cenerentola. «Quella brutta, la sua maledizione…»
Allora ritornò indietro alla ricerca della pianta di dattero. La trovò e poté ritornare a casa.
Com’era contenta Cenerentola quando il padre gliela consegnò!
Non disse nemmeno una parola, era felice e corse nel giardino per piantarla. La curava, la innaffiava. Più le dava acqua e più quella pianta cresceva.
Il padre dovette ripartire, il lavoro è lavoro!
Quando arrivò il giorno del Signore, la domenica, la matrigna e le sue sorelle si prepararono per andare in chiesa.
«E tu non vieni?» disse una delle sorelle a Cenerentola.
«E che vengo a fare?» fu la sua risposta.
Non appena uscirono tutti, la Gatta Cenerentola si alzò da vicino al focolare e corse nei campi. Andò vicino alla pianta e disse:«Dattero mio affatato,
Sera e matina t’aggio arracquato,
Spuoglie a te,
Vieste a me
fàmme cchiù bella d’ ‘a figlia d’ ‘o Re.»
Come per magia grazie a quel dattero che aveva innaffiato notte e giorno, fu vestita con un abito bello, di gran lusso. Così Zezolla, questo era il suo vero nome, uscì. Andò a messa e si sedette davanti alle sorellastre.
Queste con le facce gialle per ‘a ‘mmiria, una invidia incontrollabile, si chiedevano chi fosse quella signorina. Non l’avevano riconosciuta quanto era bella!
Prima che terminasse la messa, Cenerentola si alzò, tornò a casa e si andò a mettere sempre vicino al focolare.
Quando le sorelle rincasarono le andarono vicino e le raccontarono: «Che ti sei persa Cenerentola. Ad un certo punto in chiesa è arrivata una ragazza, mamma mia e come era bella!»
«E che vestito che teneva!»
«E che classe!»
«Dovevi vedere i gioielli!»
«Beate voi che l’avete vista. Meno male che è toccata a voi questa fortuna» rispose Zezolla.
Anche la domenica dopo accadde la stessa cosa.
«Nemmeno oggi vuoi venire?»
«Dai vieni?»
Ma Cenerentola continuava a fare la gatta vicino al focolare.
Quando le sorelle e la matrigna si allontanarono, lei, come la settimana prima andò in giardino e recitò la stessa frase magica:«Dattero mio affatato,
Sera e matina t’aggio arracquato,
Spuoglie a te,
Vieste a me
fàmme cchiù bella d’ ‘a figlia d’ ‘o Re.»
Il dattero la vestì con un abito ancora più bello della settimana precedente e con una stella d’oro in fronte.
Com’era bella… sembrava una principessa! Ma la cosa non finì qui.
Il dattero fece comparire anche una carrozza e sei cavalli. Sì, sei cavalli. Vestita che era le sette bellezze, si sedette davanti alle sorellastre che erano sempre più invidiose.
La terza domenica come da copione, le sorelle uscirono insieme alla matrigna e subito dopo Zezolla corse davanti al dattero nel giardino e formulò la stessa frase magica.
«Dattero mio affatato,
Sera e matina t’aggio arracquato,
Spuoglie a te,
Vieste a me
fàmme cchiù bella d’ ‘a figlia d’ ‘o Re.»
Il dattero la vestì con un abito luccicante con il sole davanti e la luna dietro. La carrozza era ancora più bella e ricca. I cavalli marciavano come non si era visto mai da quelle parti.
Questa volta però, Cenerentola, si andò a sedere non davanti, ma affianco alle sorellastre. Non riuscì ad andare via in tempo. Si era fatto tardi e doveva tornare prima della matrigna a casa, così si alzò di botto, si mise a correre e affrettandosi perse il suo scarpino d’oro.
Lo ritrovò il figlio del Re che con lo scarpino in mano,vedendo la carrozza allontanarsi disse:
«La ragazza che ha perso questo scarpino d’oro, sarà la mia sposa.»
Si mise alla ricerca di quel piedino. Girò tutto il regno, ma quello scarpino non entrava a nessuna ragazza. Il Principe in giro per i campi chiedeva ai contadini:
«Conoscete ragazze non sposate?»
Uno di questi disse:
«Sua Altezza Reale, proprio lì c’è un padre che tiene sette figlie femmine e nessuna è sposata.»
Figlie femmine? Ma perché ci potevano essere anche figlie uomini? No, ma si diceva così a quei tempi!
Quando il Principe arrivò nella casa delle sette ragazze, la matrigna disse che le figlie erano sei, perché aveva vergogna di nominare Cenerentola! Teneva scuorno!
Il Principe fece la prova con le sei ragazze, ma niente la scarpa non entrava.
Il Figlio del Re allora chiese:
«Ma non ne tenete più di figlie? Mi hanno detto che avete sette figlie…»
«Come ve lo devo dire…» era imbarazzata la donna, «ne ho pure un’altra che però è brutta, ma brutta assai.»
«Voglio vederla» disse il Principe.
Zezolla mise il piede fuori dalla porta senza farsi vedere e lo scarpino le andò a pennello. La matrigna, le sorellastre non ci potevano credere.
«Questa ragazza deve essere mia sposa» disse il figlio del Re che andò a prendere la carrozza. Nel frattempo la matrigna tolse lo scarpino alla Gatta Cenerentola e lo mise alla figlia più bella, ma niente non le entrava, allora le tagliò tre dita del piede.
Quando il Principe la andò a prendere, non credeva ai suoi occhi:
«Ti ho lasciato brutta e ti ritrovo bella. Ma cosa è successo?»
«È venuto il sole
m’ ha cagnato il colore.
è venuto il vento
e m’ ha cagnato il parlamento.»
Disse la bella mentendo.
Il Principe allora la fece salire sulla carrozza e se la portò via.
Intanto la matrigna andò a rinchiudere Cenerentola in una botte. Voleva buttarle acqua bollente addosso.
Proprio in quel momento una colomba volò dal figlio del Re che era nella carrozza si mise davanti e iniziò a cantare:
«E pupulla pececotta
‘o figlio d’ ‘o Re monta alla porta
e la bella toia ‘nnorata
sta sott’ ‘a vòtta ‘ntumpagnata.»
Che significava quella frase?
Quella che è nella carrozza con te, non è la ragazza che ha perso lo scarpino. Insomma la colomba voleva far sapere al Principe che la sua vera sposa era tenuta prigioniera in una botte.
Il servo che portava la carrozza e i cavalli nel sentire queste cose disse: «Altezza Reale ascoltate cosa canta questa colomba!»
Egli ascoltò e capì. Così tornò indietro, andò dove c’era la botte, si prese la brutta e vi mise la bella.
Poco dopo tornò la matrigna con l’acqua bollente.
«Mamma mia carnale, ma che fai sono tua figlia.»
«Schiatta e crepa! Mia figlia sta con il principe» disse la mamma.
Intanto Zezolla, quella brutta, la Gatta Cenerentola, corse nel giardino e come aveva fatto altre volte si rivolse alla sua pianta di dattero:
«Dattero mio affatato,
Sera e matina t’aggio arracquato,
Spuoglie a te,
Vieste a me
fàmme cchiù bella d’ ‘a figlia d’ ‘o Re»
Sradicò il dattero dalla campagna e se lo portò nella carrozza. Era diventata la più bella di tutte!
E vissero felici e contenti.
«Lloro felice e cuntiente, e nnuie cu ‘a vocca aperta e senza niente.»