Cagliuso

di Daniela Pastore e Tonino Scala

 

Ce steva ‘na vota a Napoli un vecchio miserabile, un pezzente senza nemmeno un soldo. Le sue tasche erano vuote e se ne andava in giro per la citta nudo comme a ‘nu perucchio. Un pidocchio misero e leggero senza bozzo nel fondo della borsa.
Un giorno, sul punto di morte chiamò i suoi due figli:
«Purtroppo devo pagare il mio debito con la natura. Per me è un sollievo liberarmi di quest’inferno di affanni che è stata la mia vita. Lo dico da buon cristiano. Vi lascio una miseria immensa quanto la Chiesa di Santa Chiara, abbandonati come gli straccioni che ci sono intorno alle cinque strade di Melito, puliti come la bacinella sporca di un barbiere, leggeri come l’acqua e secchi come un nocciolo di prugna. Non vi lascerò alcun bene nemmeno una piccola cosa che potrebbe trasportare un moschillo.
Nonostante tutto questo, ora che sto per morire, voglio lasciarvi qualche segno d’amore. A te, Oraziello, che sei il mio primogenito, voglio lasciare quella mappatella, quello straccio che sta appeso al muro con il quale ti potrai guadagnare il pane. Tu, Cagliuso, che sei il cucciolo di casa, pigliati la gatta. Ricordatevi sempre del vostro papà.»
E così dicendo, scoppiò in lacrime e poco dopo disse: «Addio ca è notte!»
Oraziello una volta sepolto il padre, si prese per sé lo straccio e cominciò a correre accà e allà, a destra e a manca, per guadagnarsi da vivere. Più andava in giro con quella pezza sporca, più riceveva soldi in elemosina e più guadagnava.
Cagliuso, prese con sé la gatta, ma cominciò a lamentarsi.
«Ma tu guarda che ciorta, che buona sorte, che fortuna! Che grande eredità mi ha lasciato mio padre!» Era ironico e molto incavolato. «Già non tengo un centesimo bucato per me, ora devo fare la spesa per due! Che cosa dovrei farmene di questa eredità?»
La gatta, sentendo queste lamentele, iniziò a dire la sua:
«Non lamentarti prima del tempo. Tu si furtunato e nun ‘o ssaje!»
Era fortunato senza saperlo? E dove la vedeva questa fortuna quella bella gatta?
La gatta continuò a parlare nello stupore di Cagliuso:
«Non puoi immaginare nemmeno lontanamente la fortuna che ti è capitata per le mani, perché io son capace anche di farti diventare ricco, se mi ci metto!»
Cagliuso, nel sentire quelle cose, la ringraziò facendole tre o quattro carezze sulla schiena e si raccomandò ad essa.
La gatta, che ebbe compassione per il povero disgraziato, ogni mattina, quando il sole, attirato all’amo d’oro della luce, pesca le ombre della notte, s’appostava sulla spiaggia di Chiaia o alla Pietra del Pesce, e avvistando qualche grosso cefalo o una bella orata, con le sue zampette le afferrava e andava a consegnare al Re, dicendo: «Il mio padrone, Messer Cagliuso, fedele suddito di Vostra Maestà per l’eternità, vi omaggia di questo pescato con queste precise parole: Un piccolo dono, per un grande uomo.»
Il Re, tutto lusingato come accade in questi casi, fece una faccia allegra, e rispose alla gatta: «Di’ al tuo signore che non lo conosco, ma che lo ringrazio con tutto il cuore.»
Capitava ogni tanto che la gatta andasse in zone di caccia, nella palude o agli Astroni. Si appostava aspettando che i cacciatori facessero cadere in terra le loro prede: una cinciallegra o una capinera. Le rubava e dritta volava a regalarle al Re portando la solita ammasciata.
Usò questo trucco così a lungo, che una mattina il Re le disse: «Io mi sento così obbligato nei confronti del tuo padrone che desidero conoscerlo, per poter ricambiare tutta la gentilezza che egli ha usato verso di me.»
La gatta che sapeva il fatto suo rispose: «L’unico desiderio che ha nel cuore il mio padrone, è quello di impiegare la sua vita e il suo stesso sangue per servire la Vostra Sacra Corona. Uno di questi giorni, quando il sole avrà dato fuoco all’erba dei campi, verrà senz’altro a rendervi omaggio.»
Così, quando fu il momento, la gatta tornò dal Re dicendo: «Signore mio, Messer Cagliuso vi porge le sue più umili scuse, ma non può venire, perché stanotte certe cameriere disoneste sono fuggite e l’hanno lasciato in maniche di camicia.»
Il Re, sentendo tutto ciò, ordinò ai servi di prelevare dal suo guardaroba personale biancheria e abiti, e li inviò a Cagliuso.
Non passarono nemmeno due ore che il giovane si recò al palazzo reale, scortato dalla sua gatta.
Il Re lo ricevette con tutti gli onori, lo fece sedere accanto a sé e ordinò per lui un banchetto con tante cose buone.
Cagliuso non credeva ai suoi occhi e ogni tanto, mangiando mangiando, diceva alla gatta:
«Jattella mia bella, ti raccomando quei quattro stracci, fa in modo che non vadano perduti.»
E la gatta rispondeva: «Stai zitto o ci scopriranno!»
Il Re, incuriosito voleva sapere cosa stesse succedendo. La gatta rispose che l’era venuta una voglia tremenda di limoni. Così, il Re mandò un servo in giardino a prendergliene un cestino pieno.
Ma dopo un po’, Cagliuso ritornò a dire le stesse cose:
«Jattella mia bella, ti raccomando quei quattro stracci, fa in modo che non vadano perduti.»
La musica era sempre la stessa!
E la gatta rispondeva: «Stai zitto o ci scopriranno!»
La gatta doveva affrettarsi a trovare un’altra scusa per rimediare alle idiozie di Cagliuso.
Finito il pasto, dopo aver mangiato e chiacchierato in abbondanza di questo e di quello, Cagliuso se ne andò. Non era abituato a mangiare e si sentiva troppo pesante, gli girava la testa.
Invece, la gatta, volpe scaltra e furba quale era, si trattenne con il Re, facendogli credere che Cagliuso tenesse non solo grandi qualità come uomo, ma anche tante ricchezze:
«Sua Maestà… tiene tante di quelle ricchezze sparse per le campagne lombarde e romane che farlo diventare parente di un sovrano, sarebbe una cosa buona per il sovrano stesso! Anzi, per tutto il Regno!»
Il Re volle sapere a quanto ammontasse il patrimonio di Cagliuso:
«Sì, ma… quanta rrobba tene?»
La furba jattella rispose che non si poteva tenere il conto dei mobili, dei palazzi e delle cose che teneva quel riccone:
«Sua Maestà… lui stesso non sa quello che ha. Però, se volete informarvi potreste mandare i vostri fedeli per avere la prova che non v’è al mondo ricchezza più grande.»
Così il Re mandò a chiamare i suoi uomini più fedeli ai quali ordinò di prendere precise informazioni sui possedimenti di Cagliuso. Questi seguirono la gatta, la quale, con la scusa di fargli trovare un po’ di frescura per la strada, appena furono fuori dai confini del regno, quatta quatta s’affrettò a distanziarli. Ogni volta che incontrava qualche gregge di pecore, delle mandrie di vacche o di altri animali di valore, diceva a gran voce ai pastori e ai guardiani: «Se ci tenete alla pellaccia, vi consiglio di andarvene subito, perché ci sono in giro dei banditi che razziano per tutta la campagna! Perciò, se volete salvarvi e salvare i vostri beni, dite che tutto quello che si trova qui intorno, appartiene a Messer Cagliuso e non vi torceranno un solo capello.»
Lo stesso diceva quando incontrava delle fattorie. Ovunque arrivava il corteo del Re, trovava la zampogna accordata!
Tutti per paura ripetevano la stessa cosa: «Appartiene a Messer Cagliuso!»
A forza di domandare, alla fine si stancarono e tornarono dal Re, raccontando mari e monti di questi immensi possedimenti.
Il Re a quel punto, promise un lauto compenso alla jattella se avesse combinato il matrimonio con la figlia.
La gatta concluse gli accordi e le nozze furono celebrate.
Il Re consegnò una grossa dote a Cagliuso, il quale dopo un mese di baldoria, disse che desiderava portare con sé la sposa a visitare le sue terre e se ne andò in Lombardia. Lì, sotto consiglio della gatta, comprò svariate terre e proprietà, finché diventò un barone.
Così Cagliuso, che da pezzente era diventato ricco, ringraziò a non finire la gatta, dichiarandosi suo eterno debitore. Senza il suo aiuto, non avrebbe mai conseguito fama e ricchezza.
Le era grato perché con le sue furbizie era riuscita a cambiargli la vita.
«Jattella mia bella, fai di me quello che vuoi. Ti do la mia parola d’onore, devi campare cento anni, ma se dovessi malauguratamente morire, ti giuro che ti farò imbalsamare e mettere dentro ad una gabbia d’oro per tenere per sempre vivo il tuo ricordo.»
La jattella furbella, di fronte a quella sparata di Cagliuso, a quella promessa, si finse morta. Si mise distesa teseca teseca, irrigidita in giardino. Quando la moglie la vide gridò: «Cagliuso mio, vieni a vedere! Che disgrazia! La gatta è morta!»
«Meglio a lei che a uno di noi!» La sua risposta.
«Ma cosa ne faremo?» replicò la moglie.
«Jettàlle!» Buttala, fu la risposta di Cagliuso.
La gatta, sentendo tanta ingratitudine disse:
«Sarebbe questo il ringraziamento per tutti i pidocchi che t’ho levato via dal collo? Sarebbero questi i tuoi mille grazie per gli stracci che ti ho fatto buttare? Questa è la ricompensa dopo che ti ho ripulito e rivestito? Dopo che da pezzente pidocchioso, straccione e miserabile, ti ho sfamato quando morivi di fame e trasformato in gran signore? A lavà ‘a capa ‘o ciuccio se perde l’acqua e ‘o sapone! Vattene… maledetto il giorno che ti ho incontrato.»
A lavare la testa all’asino si perde acqua e sapone… e così dicendo, scappò via.
Chi asino si corica, asino si ritrova!
Cagliuso sentendosi umiliato cercò di farsi perdonare, ma non ci fu più verso di farla ritornare sui suoi passi. Scappò e andò via dicendo:
«Dio ci scampi dal ricco quando è impoverito e dal pezzente quando s’è arricchito.»